La sperimentazione dei nuovi farmaci

Prima che una nuova cura sia disponibile per tutti i malati sono necessari molti anni di studio, a tutela della sicurezza di tutti.

Nel 2002 una giovane donna statunitense, Kianna Karnes, scoprì di avere un cancro del rene in uno stadio già avanzato. Il padre, tramite Internet, venne a sapere di diverse ricerche in corso su nuovi farmaci contro il tumore di cui Kianna soffriva. Cercò in tutti i modi di farla entrare in una sperimentazione, ma senza successo: poiché la donna aveva già delle metastasi cerebrali, non era un buon soggetto di studio.

Avrebbe potuto avere delle crisi epilettiche e il ricercatore non sarebbe stato in grado di discriminarne la causa: un effetto collaterale del nuovo farmaco o una manifestazione della malattia?

Il padre della ragazza si rivolse ai tribunali e dopo una lunga battaglia ottenne il farmaco sulla base del cosiddetto 'uso compassionevole', una norma che consente di somministrare una sostanza farmacologica non sufficientemente testata e al di fuori di una sperimentazione a persone per le quali non esiste un'alternativa valida e che, in base alle conoscenze disponibili, potrebbero giovarsene.

La storia di Kianna Karnes ha occupato le pagine dei giornali statunitensi per mesi, dividendo i lettori tra sostenitori del libero accesso a qualsiasi cura e sostenitori delle regole della scienza. Eppure negare l'ingresso della giovane nella sperimentazione è stata, dal punto di vista della ricerca sui farmaci e della sanità pubblica, una decisione necessaria e saggia. Vediamo perché.

Regole uguali per tutti

"La ricerca su farmaci nuovi segue una serie di tappe codificate a livello internazionale, alle quali i ricercatori devono attenersi" spiega Francesco Perrone, direttore della sperimentazione clinica dell'Istituto Pascale di Napoli. "Si tratta di un meccanismo messo in piedi nel tempo a tutela della salute dei malati".

Bisogna infatti partire dal presupposto che nessun farmaco è privo di effetti collaterali, neanche i più 'intelligenti': tutti possono fare danni, grandi o piccoli, e tali danni devono essere messi in evidenza prima che la cura sia a disposizione di tutti i pazienti. Per questo la ricerca clinica su una nuova molecola parte dall'elaborazione del cosiddetto 'protocollo': chi potrà entrare nella sperimentazione, quali caratteristiche dovrà avere (sesso, età, tipo di malattia, gravità della stessa) perché il risultato sia il più chiaro possibile.

Il protocollo sperimentale deve essere sottoposto a una serie di enti di controllo sia scientifici (per esempio i ministeri della Salute o gli enti regolatori dei farmaci, come la Food and Drug Administration statunitense o l'EMEA in Europa) sia etici: è necessario, infatti, che qualcuno vegli sul rispetto dei diritti fondamentali di chi accetta di fare da 'cavia' per un nuovo studio (vedi il riquadro in questa pagina).

Dodici anni di strada

Quando un team di ricercatori comincia a immaginare una nuova cura, si avvia la cosiddetta fase preclinica, che consiste nello studio, in laboratorio e su modelli in vivo, delle proprietà chimiche e tossicologiche della sostanza. Non basta infatti che una cura sia efficace nei confronti del bersaglio previsto (e che quindi curi la malattia): bisogna anche che non sia tossica, altrimenti non sarà di nessuna utilità.

Una volta passata questa fase, che coinvolge diverse molecole spesso chimicamente simili tra loro, la migliore viene avviata alla cosiddetta sperimentazione clinica, ovvero viene testata sull'uomo. Dalla prima idea alla commercializzazione della cura passano in media dai 10 ai 12 anni, e sebbene molti pazienti (e anche molti medici!) desiderino accorciare questi tempi, ciò non è possibile.

"I tempi della ricerca clinica su una nuova potenziale cura sono una garanzia per i futuri consumatori" continua Perrone.

Il farmaco uscito dal laboratorio viene avviato alla cosiddetta fase 1. Obiettivo: valutare per la prima volta se la sostanza è tossica nell'uomo e qual è la dose soglia oltre la quale è meglio non andare. Poiché lo scopo non è quello di curare la malattia, i volontari selezionati possono anche essere soggetti sani (quasi mai per i farmaci antitumorali) e poco numerosi (qualche decina).

Se la molecola ottiene la 'patente di sicurezza', passa alla fase 2. Lo scopo di questa tappa è ancora diverso: si vuole, per la prima volta, verificare se effettivamente la cura è attiva contro la malattia per la quale è stata inventata, per cui si selezionano pazienti (in genere non più di un centinaio) il più possibile simili tra loro per caratteristiche individuali e della patologia. In questo modo i dati ottenuti sono chiaramente interpretabili. Anche in questa fase si fa attenzione a eventuali effetti collaterali e tossici, e si stabilisce qual è la posologia ottimale (dosaggio e tempi della somministrazione).

Se anche questa fase trascorre senza incidenti di rilievo, e se il farmaco dimostra la sua attività, si passa alla fase 3: la nuova cura viene confrontata alla terapia standard già esistente per verificarne la reale efficacia; partecipano diversi ospedali in tutto il mondo e il numero dei pazienti reclutati aumenta (nell'ordine delle migliaia). Solo facendo crescere il numero di persone sottoposte alla sperimentazione (sempre però nell'ambito di un preciso protocollo) è possibile verificare se essa è veramente efficace e se esistono effetti collaterali rari, che difficilmente si possono scoprire finché la cura è somministrata a poche persone.

A questo punto tutta la documentazione viene portata dalla casa farmaceutica detiene il brevetto del nuovo farmaco all'ente regolatore, che la esamina e approva la messa in commercio. Ora la nuova cura è a disposizione di tutti, ma non viene abbandonata a se stessa: poiché possono comparire effetti collaterali rarissimi, nell'ordine di un caso su milioni di utilizzatori, è stata istituita la cosiddetta fase 4, chiamata anche sorveglianza postmarketing. Qualsiasi effetto collaterale, sia pur minimo e non notato nelle fasi precedenti, viene segnalato alle autorità che ne considerano l'importanza ed eventualmente cambiano le indicazioni o il foglietto illustrativo del farmaco, o, in casi veramente estremi, dispongono il ritiro della cura dal commercio.

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Una tutela contro l'imprevisto

Il caso di Kianna Karnes è servito a ricordare a tutti che l'accesso ai farmaci sperimentali è regolamentato perché questo è l'unico modo per tutelare la collettività da effetti collaterali anche molto gravi: basta ricordare che negli anni '60 entrò in commercio una sostanza, la talidomide, venduta come antinausea per la gravidanza, che fece nascere migliaia di bambini senza braccia nella sola Europa. La talidomide è stata poi studiata con più attenzione e oggi viene usata proprio come antitumorale, con l'accortezza, ovviamente, di evitare una gravidanza durante la cura. Dopo questo caso, la comunità scientifica si è data regole ferree, che è assolutamente necessario rispettare, salvo casi eccezionali.

Uno di questi è proprio la concessione per 'uso compassionevole' di una sostanza non ancora disponibile in farmacia.

Contrariamente a quanto può far pensare il termine un po' infelice con cui viene designato, il farmaco per uso compassionevole non è riservato a malati in fase terminale, ma può essere utile in alcuni casi estremamente selezionati. Esiste infatti un regolamento molto complesso a tutela del malato che vuole assumere, al di fuori di una sperimentazione, un farmaco che non è giunto alla fine del percorso di studio.

Il medico curante deve inoltrare una richiesta dettagliata alla casa farmaceutica e chiedere una fornitura. Sono necessari il nulla osta del comitato etico dell'ospedale e del paziente, che riceve spiegazioni sui pro e i contro della cura ed è tenuto a firmare un consenso informato.

Il farmaco deve essere stato inserito preventivamente in un elenco presso l'Agenzia italiana per il farmaco (AIFA) e deve avere superato la fase 3 di sperimentazione (è rarissimo che si conceda l'uso di una sostanza in una fase più precoce). L'azienda produttrice deve essere disposta a distribuirlo in questo modo, perché potrebbero esservi problemi di produzione o di costi (anche se esiste un apposito fondo presso il ministero della Salute affinché il malato non debba mettere mano al portafoglio). La rete di garanzie ha proprio la funzione di ricordare quanto eccezionale è questa procedura.

La prescrizione off label

Molti farmaci usati in oncologia non sono registrati, dalla casa produttrice, per tutte le indicazioni possibili. Questo perché per ogni indicazione l'azienda deve effettuare appositi studi, molto costosi, che non sempre è conveniente portare avanti. In altri casi, invece, la scienza progredisce più rapidamente della burocrazia, per cui vi sono sostanze di provata efficacia nei confronti di certi tumori che però non sono registrati per quella indicazione.

"Dare un farmaco fuori indicazione vuol dire fare la cosiddetta prescrizione off label, che in inglese significa fuori dall'etichetta" spiega Perrone; "chiaramente non si devono prescrivere farmaci off label, proprio per tutelare i malati dall'uso improvvido di alcune sostanze da parte dei medici, ma ci sono eccezioni, come ad esempio i tumori rari, per i quali solo raramente vengono registrati nuovi farmaci. Nel caso in cui si voglia prescrivere un farmaco off-label bisogna che l'opportunità di tale prescrizione venga valutata da commissioni ospedaliere indipendenti dal medico che la propone e, in certi casi, dal Comitato di Bioetica". Non dimenticando, che il costo delle terapie farmacologiche pesa sulla collettività, come ricorda ancora Perrone.

"Vi sono Paesi in cui le assicurazioni private, pur di strapparsi reciprocamente i clienti, promettono di concedere qualsiasi farmaco, anche quelli nuovi o fuori indicazione. Non ritengo che un sistema sanitario pubblico possa e debba fare altrettanto: solo le regole tutelano la salute dei pazienti, e solo un'equa distribuzione delle risorse, privilegiando interventi di efficacia dimostrata, consente di curare tutti. Continuo a pensare che sia una fortuna vivere in un Paese in cui a tutti è garantita una buona cura".

L'etica della ricerca

Dopo le aberranti sperimentazioni condotte nei campi di concentramento nazisti, la comunità internazionale, per la prima volta nella storia, decise di redigere le regole della sperimentazione sull'uomo. Era il 1947 e il documento, noto come 'Codice di Norimberga', proclamava in modo solenne che "il consenso volontario del soggetto è assolutamente necessario". Tuttavia il vero significato del consenso volontario e non sostituibile da altre modalità di legittimazione venne compreso soltanto nei decenni successivi, attraverso un percorso che non è stato uniforme nei vari Paesi.

Oggi il principale documento che regola l'eticità delle sperimentazioni nell'uomo è la Dichiarazione di Helsinki, redatta nel 1964 dalla World Medical Association (Associazione mondiale dei medici). Il documento, aggiornato nel 2004, regola i diritti degli esseri umani coinvolti nella sperimentazione dei farmaci. Al paziente viene riconosciuto il diritto alla riservatezza sui dati raccolti e il diritto di sapere chi gestisce i propri dati clinici. Ogni paziente può decidere di negare il proprio consenso alla partecipazione in qualsiasi momento, senza ripercussioni sul diritto di cura. Non è inoltre tenuto a dare spiegazioni in caso di rifiuto a partecipare oppure se decide di abbandonare lo studio. In ogni caso, ha il diritto di ricevere la migliore terapia al momento disponibile.

  • Daniela Ovadia

  • Articolo pubblicato il:

    1 giugno 2011