PSA: non è un prelievo che salva dal tumore della prostata

Il dosaggio del PSA, cioè del cosiddetto "antigene prostatico specifico", è un esame del sangue facile da effettuare, sulla cui utilità per la diagnosi precoce del tumore della prostata esistono però dei dubbi.

Ultimo aggiornamento: 7 maggio 2018

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Il dosaggio del PSA, cioè del cosiddetto "antigene prostatico specifico", è un esame del sangue facile da effettuare, sulla cui utilità per la diagnosi precoce del tumore della prostata esistono però dei dubbi. Gli esperti concordano che dosare il PSA serve a controllare nel tempo i casi già trattati (operati, trattati con radioterapia o in terapia ormonale), mentre è dubbio se sia utile a individuare l'eventuale presenza di un cancro in fase precoce in tutti gli uomini sani di una certa età. Di questi aspetti occorre che il paziente sia adeguatamente informato.

Poiché il rapporto tra effetti indesiderati e benefici non è ancora del tutto chiaro, non esiste finora un programma di screening raccomandato, come si fa con la mammografia per il tumore della mammella. I dubbi si riflettono anche nelle posizioni contrastanti che le società scientifiche internazionali e italiane a volte hanno sul tema, con il rischio di confondere le persone.

In adulti sani e senza disturbi attribuibili a un tumore della prostata, c'è un’altissima probabilità di ottenere risultati falsi positivi: valori alterati di PSA anche in assenza della malattia tumorale. Con questo esame è anche alta la probabilità di sovradiagnosi: individuare casualmente tumori della prostata che il paziente non avrebbe mai scoperto di avere, perché in un'alta percentuale dei casi crescono lentamente e non dà segno di sé.

La diagnosi precoce non incide sempre sulla sopravvivenza

Gli studi condotti finora dimostrano che dosare il PSA aumenta la possibilità di individuare una neoplasia della prostata in fase iniziale. Non tutti però concordano sul fatto che, anticipando la diagnosi, si possa ridurre il numero di persone che moriranno a causa della malattia. In questo caso, quindi, la diagnosi precoce non sempre produce un vantaggio per i pazienti in termini di mortalità. Il leggero calo della mortalità che si è registrato è spiegabile con il miglioramento delle terapie, che è continuato anche quando si è superato il picco delle diagnosi dovute alla novità del test.

Fino ai primi anni del 2000, probabilmente anche a causa della diffusione di questo test, si è osservato un aumento nel numero di nuovi casi di tumore alla prostata scoperti ogni anno. Lo conferma il fatto che l'incremento è stato maggiore nel nord Italia, dove lo self-screening (cioè l'esecuzione del PSA su richiesta del paziente) si è diffuso maggiormente. Ma nel caso del tumore della prostata, il rischio di sovradiagnosi è particolarmente rilevante e non è compensato da un calo della mortalità imputabile al test.

Alcune ricerche sembrano suggerire la possibilità di ridurre fino al 20 per cento la mortalità per tumore della prostata introducendo lo screening in certe fasce di età. Tuttavia per ogni individuo salvato non è trascurabile il numero di persone che ricevono una diagnosi nefasta e una terapia ininfluente sulla durata della vita, che incide negativamente sulla qualità della vita stessa. Lo studio europeo European Randomized Study of Screening for Prostate Cancer (ERSPC) ha per esempio stimato che, per ogni vita salvata grazie alla diagnosi precoce di tumore alla prostata tramite PSA, altri 26 uomini scoprono di avere un cancro, e vengono quindi curati, subendo gli effetti indesiderati delle terapie, per una malattia che non avrebbe avuto modo o tempo di manifestarsi durante la loro vita, se non si fossero sottoposti all’esame.

 

Effetti collaterali del dosaggio del PSA

Un PSA elevato è quasi sempre seguito da accertamenti diagnostici invasivi e trattamenti che possono essere gravati, in una percentuale variabile di casi, da complicazioni rilevanti. La biopsia ecoguidata (trans rettale o trans perineale) è spesso accompagnata (specie la trans rettale) da complicanze quali emorragie e infezioni.

Il rischio di complicanze gravi o di decessi durante un intervento per l'asportazione della prostata o nel decorso post operatorio è invece minimo. Ad esso però è possibile che seguano incontinenza urinaria e soprattutto impotenza, transitorie o permanenti, in percentuali variabili dipendenti dall'estensione della malattia e dall’esperienza del chirurgo.

Finora non ci sono prove che le più moderne tecniche robotiche siano in grado di ridurre il rischio di questi effetti indesiderati rispetto a quelle tradizionali. Disturbi di questo tipo possono seguire, in percentuali diverse, anche alla radioterapia che provoca più spesso complicazioni rettali e anali, come dolore, urgenza alla defecazione e perdite. Anche la terapia ormonale, che consiste nella soppressione degli androgeni ed è utilizzata soprattutto nei pazienti più anziani o con malattia più avanzata, può provocare effetti collaterali.

Oggi non c'è modo di prevedere e quindi evitare queste conseguenze, che colpiscono anche pazienti nei quali la malattia non si sarebbe mai manifestata. La situazione potrebbe cambiare qualora si trovino marcatori capaci di distinguere una malattia più aggressiva da una indolente.

Nei casi che appaiono meno avanzati si sta diffondendo un approccio di “sorveglianza attiva”: il paziente si sottopone a controlli ravvicinati per cogliere precocemente una eventuale accelerazione nella crescita del tumore e in tal caso intervenire.

Suggerimenti per chi decide di eseguire il test

Alla luce dei possibili benefici ed effetti collaterali, ognuno deve soppesare bene, con l'aiuto del proprio medico, se aggiungere o no il PSA agli esami di routine.

Nella valutazione occorre tener conto anche dell'età. L'esame infatti non è mai raccomandato in assenza di sintomi, ma può essere preso in considerazione da chi, debitamente informato, volesse comunque eseguirlo, tra i 50 e i 70 anni.

Anche secondo gli studi più favorevoli, infatti, lo screening offre qualche vantaggio in termini di sopravvivenza solo agli uomini in questa fascia di età: tra i più giovani la malattia è troppo rara e oltre la soglia dei 70, ma forse anche prima, la scoperta di avere un tumore alla prostata non cambierebbe l'aspettativa di vita, a prezzo di un peggioramento della qualità dovuto alla consapevolezza di avere un cancro e agli effetti di eventuali interventi e terapie.

Anche l'indicazione di sottoporsi al test a partire dai 40 anni in caso si siano verificati altri tumori alla prostata in famiglia non è attualmente sostenuta da prove scientifiche convincenti.


Una volta ritirati i risultati degli esami è importante non allarmarsi se si trova un asterisco che segnala un valore alterato di PSA. Il dosaggio del PSA può risultare alterato per moltissime ragioni, per esempio patologie benigne della prostata, insufficienza renale, un'esplorazione rettale, una recente attività sessuale o l'uso di farmaci molto comuni e perfino della bicicletta; i valori fluttuano inoltre in base al peso corporeo, all'etnia e perfino in relazione alle stagioni dell'anno.

Un singolo riscontro di valori superiori alla media non deve quindi destare particolare preoccupazione, anche perché non esiste una soglia di sicura positività: normalmente si considera degna di attenzione una concentrazione di PSA superiore a 4 ng/mL, ma valori inferiori non permettono di escludere completamente la malattia. La biopsia conferma la presenza di un tumore solo in un uomo su quattro con valori di PSA compresi tra 4 e 10 ng/mL. Se i livelli sono molto elevati il sospetto di un tumore si fa invece più fondato. Più che il valore assoluto però, sembra che abbia una rilevanza maggiore l'andamento nel tempo del PSA, mentre la percentuale di PSA libero, cui un tempo si dava particolare importanza, sembra attualmente aver perso di interesse.

Sarà il medico a stabilire, in relazione al risultato dell'esame, all'età e alle condizioni del paziente, se ripetere l'esame a distanza di tempo o eseguire subito una biopsia.

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