Test genetici solo nelle mani degli esperti

Proliferano le aziende che invitano a fare esami genetici per valutare il rischio individuale di ammalarsi. Ma le risposte che si ottengono aprono solo nuove domande.

Come una sorta di palla di cristallo, i test genetici promettono di rivelare alle persone tutti i segreti nascosti nel DNA e di quantificare il loro rischio di ammalarsi. Si tratta di strumenti frutto delle più avanzate ricerche sulle cause delle malattie (in primo luogo del cancro, delle malattie neurodegenerative e cardiovascolari) e come tali costituiscono l'ausilio diagnostico del futuro ma, a detta degli esperti, si sono diffusi in modo eccessivo e incontrollato. Ora arrivano anche in Italia le aziende che promettono una sorta di patentino di eterna giovinezza grazie all'analisi dei geni. E anche Internet è diventata una facile via di accesso a controlli che dovrebbero invece essere affidati a strutture accreditate e sicure.

Dietro queste iniziative apparentemente innocue (in fondo che rischio si corre a mandare in laboratorio un semplice tampone di saliva o un campione di sangue?) si nascondono infatti pericolosi fraintendimenti. Perché se è vero che la medicina ha identificato alcuni geni che aumentano la predisposizione ad ammalarsi di determinate malattie, è anche vero che cercarli è utile solo in casi selezionati, come spiega Marco Pierotti, direttore scientifico dell'Istituto nazionale tumori di Milano: "È opportuno procedere solo se dopo un'accurata valutazione da parte di un genetista esperto vi sono indicazioni al test genetico".

Un nome, diversi obiettivi

Sotto il grande cappello dei 'test genetici' si nascondono in realtà esami con finalità diverse. Ve ne sono alcuni che cercano nel DNA del soggetto la presenza di alcuni geni che sono indice di malattia già in corso. Un esempio è quello del gene della fibrosi cistica, che viene ricercato nei bambini appena nati con familiarità e che presentano alcuni sintomi sospetti. Altri geni, come alcuni di quelli che provocano il cancro del colon familiare (gene della poliposi adenomatosa familiare), non indicano la malattia ma una probabilità di ammalarsi che, con l'avanzare dell'età, arriva quasi al 90%. Non una certezza, quindi, ma quasi.

Sapere di essere portatori di queste mutazioni nel DNA è però importante perché le misure di prevenzione (ricorso frequente alla colonscopia e asportazione dei polipi e di altre lesioni precancerose) sono efficaci nella maggioranza dei casi. Se invece si vanno a cercare geni che indicano un rischio di ammalarsi di tumore più basso (come per esempio i geni BRCA1 e BRCA2 del cancro del seno o dell'ovaio - che indicano un rischio compreso tra il 50% e l'80% - o il gene Ret del carcinoma della tiroide), saperlo è molto utile perché dà l'indicazione di aumentare la frequenza dei controlli, cominciare in giovane età, adottare stili di vita sani ma solo l'asportazione preventiva dell'organo (mammelle, ovaie o tiroide) potrebbe, spesso a caro prezzo, fornire una ragionevole sicurezza di evitare il cancro.

"Quando le percentuali sono ancora più basse o il gene esaminato è coinvolto in diversi tipi di tumori, l'utilità è ancora minore" spiega Pierotti. Mentre nei casi descritti in precedenza si tratta di geni che sono in grado, da soli, di determinare la malattia, in altri l'analisi genetica mostra solo un generica suscettibilità ad ammalarsi. "È quanto accade con le malattie cosiddette multifattoriali, in cui non solo vi sono più geni coinvolti, ma è necessario, perché la malattia compaia, che vi sia anche una particolare interazione tra loro e con l'ambiente" spiega l'esperto.

Questioni di etica

I candidati ai test di suscettibilità provengono da famiglie in cui la patologia è comparsa con frequenza superiore alla media e in età molto precoce. "Poiché non conosciamo tutte le possibili alterazioni genetiche in alcune malattie (tra le quali diverse forme di cancro) non avrebbe senso fare screening su persone senza sintomi o senza casi in famiglia" ribadisce Pierotti. In questi casi, un risultato negativo significa solo che il rischio di quell'individuo è analogo a quello della media della popolazione, mentre un risultato positivo indica un rischio aumentato, anche se non sempre è facile quantificarlo.

"Le cifre che vengono date dai consulenti genetici (più 20%, più 30%) sono frutto delle nostre conoscenze epidemiologiche, ma sono anche, ovviamente, solo indicative per definizione" conclude Pierotti. I dubbi degli esperti sulla diffusione indiscriminata dei test genetici non riguardano solo gli aspetti più strettamente pratici e scientifici, ma anche quelli etici, come spiega Giovanni Boniolo, docente di filosofia della scienza all'Università di Padova e direttore del dottorato di ricerca in Scienze della vita ed etica presso la Scuola europea di medicina molecolare di IFOM: "Gli esami genetici non sono assimilabili agli altri tipi di test diagnostici perché oltre a fornire informazioni sul soggetto che vi si sottopone, ne danno anche su familiari e parenti".

Se una donna scopre, per esempio, di essere portatrice del gene BRCA per il cancro del seno, deve avvertire le sorelle? E se queste preferiscono non sapere? "Esiste un diritto a conoscere ma anche un diritto a non conoscere" continua Boniolo. "È difficile, però, che la notizia di un test positivo sfugga ai consaguinei più stretti, che si trovano quindi a fronteggiare una situazione per la quale non sono preparati. Anche perché non vi è nessuna certezza: vi sono coppie di gemelle, ambedue positive per il gene BRCA in cui il cancro si è manifestato in una sorella ma non nell'altra".

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Cosa vuol dire rischio

Inoltre vi è un problema di interpretazione del referto, specie se non è un genetista a presentarlo al paziente. "Non tutti hanno dimestichezza con la statistica, e invece qualche nozione è fondamentale per comprendere la reale portata delle informazioni che si ricevono. Per esempio, avere un rischio aumentato del 30% di sviluppare un tumore ha un significato diverso se la malattia è molto frequente o se, invece, è relativamente rara.

Il 30% in più di un numero piccolo significa una aumento limitato in termini assoluti, ma consistente se la malattia è molto diffusa" spiega Boniolo. La bioetica deve tenere conto anche degli aspetti psicologici: "Ha senso fare uno studio genetico se possiamo proporre al paziente qualcosa per limitare il danno, altrimenti è una questione da valutare con attenzione" continua Boniolo. "Un esempio tipico è quello delle demenze come l'Alzheimer: al momento non c'è modo di fermare l'evoluzione della malattia, né di prevenirla. Fare un test genetico, quindi, è etico solo se la persona ha particolari esigenze, per esempio quella di mettere ordine nei propri affari o nella propria vita privata in previsione di una malattia che, però, può anche non manifestarsi".

Tutelare la privacy

I risultati di un'analisi del DNA possono essere particolarmente delicati e quindi è ovvio che i pazienti desiderino garantirsi la massima privacy. Ma è davvero così? Nei centri più seri vi sono particolari protocolli per la conservazione delle cartelle cliniche contenenti dati sensibili come quelli genetici, compresi sistemi di criptaggio. Non si può dire altrettanto per le informazioni che viaggiano sul web: negli Stati Uniti si sono verificati casi di datori di lavoro o di assicurazioni che hanno consultato la mappa genetica di una persona senza chiedere l'autorizzazione. Le ragioni sono evidenti: perché assicurare o assumere qualcuno che ha un rischio elevato di ammalarsi?

La legge italiana, in questo senso, è ancora lacunosa, come conferma Giovanni Boniolo: "Nessuno discute, per esempio, delle banche dati legali contenenti il DNA degli individui che si sono trovati sulla scena di un delitto, magari casualmente, e che nemmeno sanno che il loro materiale biologico è stato schedato". Per non parlare dei cosiddetti 'furti di DNA' ovvero della possibilità, piuttosto semplice, di far analizzare il DNA altrui a sua insaputa. I casi di cronaca più eclatanti riguardano, per esempio, fidanzati che fanno analizzare i geni delle future mogli per verificare il loro rischio di ammalarsi o di padri che, dubitando di essere i genitori biologici dei propri figli, fanno eseguire test di paternità senza il consenso della moglie.

  • Agenzia Zadig

  • Articolo pubblicato il:

    19 settembre 2013