È corretto che il Sistema sanitario nazionale non offra lo screening con mammografia a tutte le donne?

Sì, la decisione del Sistema sanitario nazionale è corretta, perché uno screening è diverso da un test medico eseguito su base individuale.

Ultimo aggiornamento: 19 marzo 2019

Tempo di lettura: 10 minuti

In sintesi

  • Uno screening deve rispondere al requisito di ridurre la mortalità prima di essere proposto e attuato dal Sistema sanitario nazionale. Lo screening mammografico per il tumore al seno ha dimostrato di ridurre la mortalità a livello di popolazione per le donne nella fascia di età i 50 e i 69 anni, ma non prima e non dopo.
  • Alcuni studi dimostrano che mammografie più frequenti di quelle suggerite per gli screening possono a loro volta, in una percentuale molto bassa ma non trascurabile, favorire la comparsa di un tumore (anche per questo è bene rivolgersi a centri dotati di macchinari nuovi, che emettono una dose molto ridotta di radiazioni).
  • Non sempre la diagnosi precoce è un vantaggio. Nel caso del tumore al seno identificato tramite mammografia, alcuni studi segnalano il rischio di sovra-diagnosi, ovvero di individuare formazioni che una volta scoperte sono trattate, anche se è possibile che, non trattate, rimarrebbero indolenti. Il problema è che a parità di diagnosi è molto difficile a oggi sapere a priori quali tumori si comporteranno in modo più o meno aggressivo.
  • La decisione di sottoporsi a mammografia al di fuori degli screening deve basarsi su un'informazione completa sui pro e contro e deve essere presa dopo un colloquio con un medico in grado di valutare il profilo di rischio della singola donna.

Per approfondire

"Ho 44 anni e vorrei sottopormi a screening mammografico, ma il Sistema sanitario nazionale lo prevede solo a partire dai 50 anni. Inoltre il mio medico di famiglia dice che prima di decidere dovrei fare un colloquio con lui per capire se mi serve davvero e quali sono i vantaggi e svantaggi della mia scelta. Ma se la diagnosi precoce è sempre un bene, è corretto questo atteggiamento della sanità pubblica e del medico?"

Prevenire è meglio che curare: lo si dice sempre quando si parla di cancro ed è una affermazione generalmente affidabile. Viene quindi spontaneo chiedersi: perché un esame che permette di diagnosticare in anticipo il cancro del seno non viene offerto gratuitamente a tutte le donne a tutte le età?

La ragione per cui lo screening è in genere limitato alla fascia di età che va dai 50 ai 69 anni è perché, in questo particolare periodo di vita della donna, studi precedenti hanno mostrato che lo svantaggio di una possibile sovra-diagnosi è accettabile e bilanciato dal vantaggio di una effettiva diminuzione della mortalità. Prima e dopo questa fascia d'età il bilancio dello screening è meno favorevole, o perché l’efficacia è minore o perché l’aspettativa di vita è più limitata. Di nuovo si sta parlando di effetti dello screening, cioè di un test offerto a tutte le donne di una certa fascia di età: questo non significa che un medico possa prescrivere il test a una donna ben precisa, magari perché ha familiarità per i tumori al seno in famiglia o ha un seno con caratteristiche che predispongono al cancro (come per esempio un tessuto ghiandolare iperdenso).

Diagnosi precoce significa individuare prima una malattia

Un esame come la mammografia non previene la malattia, cioè non protegge dal tumore, ma permette di diagnosticarlo in anticipo, nella convinzione che così facendo le cure siano meno invasive e la mortalità più bassa. Occorre qui un chiarimento linguistico: secondo alcune indagini tra la popolazione, l'uso della parola prevenzione per indicare quella che in medicina si chiama prevenzione secondaria, ma che nel linguaggio comune sarebbe la diagnosi precoce, è una delle fonti di maggiore confusione per le donne che devono decidere se e come aderire a campagne di screening: tante pensano che sottoponendosi a questo test eviteranno di ammalarsi, mentre il test serve soltanto a diagnosticare precocemente l’eventuale malattia.

Attenzione ai termini

Se un esame è proposto a tutte le persone in una certa fascia di età e con particolari caratteristiche, si dice che è un esame di screening, cioè non basato sulle caratteristiche del singolo individuo o sulla sua storia familiare, ma su elementi condivisi dall'intero gruppo (per esempio, persone dello stesso genere e di una certa fascia di età). Uno degli elementi importanti perché un test possa diventare uno screening è che incida sulla mortalità per la malattia che diagnostica: non basta fare più diagnosi, bisogna che queste diagnosi anticipate permettano di salvare vite umane cambiando il naturale decorso della malattia.

La mammografia può essere usata per lo screening ed è quindi raccomandata e offerta gratuitamente in Italia a tutte le donne nella fascia di età tra i 50 e i 69 anni. Alcune Regioni, su indicazione del Ministero della Salute, la stanno estendendo alle donne tra i 45 e 49 anni con intervallo annuale e alle tra i 70 e 74 anni con intervallo biennale)
Ciò non significa, però, che non vi siano donne che hanno bisogno di fare la mammografia anche in età più giovanile, per esempio se hanno familiarità per il cancro al seno oppure perché hanno una mammella con alcune caratteristiche particolari che, sulla base degli studi condotti finora, possono favorire la comparsa di un tumore. Nel loro caso non si parla però di screening, perché non rientrano nella categoria generale, ma di esami diagnostici prescritti sulla base di caratteristiche individuali.

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Il punto chiave è la riduzione di mortalità

Torniamo sul concetto fondamentale di mortalità. Qualsiasi screening per essere approvato deve dimostrare di ridurre la mortalità per la malattia e non solo di aumentare le diagnosi. Questo perché esistono forme tumorali a lentissima evoluzione (come alcuni carcinomi della prostata) e altre che addirittura possono non progredire (come la maggior parte dei carcinomi duttali in situ - DCIS – la forma più frequentemente diagnosticata dalla mammografia).

Nel luglio del 2015 sono stati pubblicati sulla rivista Jama Internal Medicine i risultati di uno studio che ha fatto molto discutere. Nello studio sono stati analizzati gli effetti dello screening mammografico attraverso i registri dei tumori di 547 regioni degli Stati Uniti. Gli autori, oncologi ed epidemiologi dell'Università di Harvard e di Dartmouth, concludono che purtroppo l'effetto maggiormente visibile dello screening è la sovra-diagnosi, cioè l'identificazione di tumori che, anche se non scoperti, non avrebbero procurato guai.

Questi dati dicono che, tra i 16 milioni di donne che abitano le regioni esaminate, sono stati diagnosticati nel 2000 53.207 casi di cancro al seno, il cui destino è stato seguito per i 10 anni successivi. Durante quel periodo, circa il 15 per cento delle pazienti è deceduto a causa del tumore e un altro 20 per cento per altre cause. L'adesione allo screening variava, a seconda delle Regioni, tra il 39 e il 78 per cento. Nonostante ciò gli autori scrivono di "non aver trovato alcuna correlazione tra la mortalità a 10 anni e l'adesione dello screening". In altre parole, dove una maggior quota di donne si sottoponeva regolarmente ai controlli, non si è ridotto il numero di quelle che morivano a causa della malattia. Viceversa, per ogni aumento del 10 per cento nelle adesioni allo screening, l'incidenza (cioè il numero di casi diagnosticati) di tumore al seno saliva del 16 per cento. In numeri assoluti significa che la mammografia ha "scovato" tra 35 e 49 nuovi casi di cancro ogni 100.000 donne.

Come mai queste diagnosi precoci non si riflettono in un'aumentata sopravvivenza? Perché nella maggior parte dei casi si tratta di carcinomi in situ, la forma che nella stragrande maggioranza dei casi regredisce spontaneamente.

È bene però ricordare che in alcuni casi (una minoranza) ciò non avviene e che la malattia può diffondersi e dare metastasi. Il problema è che non c'è modo di sapere in anticipo se e quando questo accadrà. Né è possibile distinguere, a parità di diagnosi, quale tumore sarà aggressivo e quale non lo sarà. È per questo che la maggior parte delle donne con diagnosi di questo tipo decide comunque di farsi operare e di seguire le cure indicate per il cancro al seno, anche se alcuni medici sostengono che si potrebbe utilizzare un protocollo di "vigile attesa", come viene chiamato in medicina: non si interviene, ma si osserva l'eventuale evoluzione della piccola massa tramite mammografie ravvicinate nel tempo.

Effetti collaterali

Si potrebbe obiettare che la sovra-diagnosi, e un certo numero di cure in eccesso, sono un rischio accettabile a fronte anche di una sola vita salvata. Gli epidemiologi tuttavia ragionano diversamente, dato che devono tener conto dell'effetto di uno screening sulla popolazione da esso interessata.

Esiste però un altro elemento di cui le donne devono essere consapevoli. Anche se la dose di raggi somministrata con la mammografia è molto bassa, la Cochrane Collaboration, una rete di studiosi che si occupa di fare revisioni della letteratura scientifica, ha stimato che troppe mammografie possono costituire un fattore di rischio a causa della dose di raggi assorbita. Per "troppe" si intendono quelle effettuate con una cadenza annuale, magari fin da un'età giovanile (40 anni) e protratte oltre il limite raccomandato dei 69 anni. Non sembra esserci invece pericolo con le indicazioni attuali (una mammografia ogni due anni tra i 50 e i 69 anni). Il National Cancer Institute statunitense, che pure è favorevole allo screening, stima che ogni 1.000 donne che si sottopongono annualmente a mammografia ve ne potrebbe essere una che si ammala a causa dell'irraggiamento. Per questa stessa ragione è in corso un dibattito, negli Stati Uniti, tra l'American Cancer Society, che raccomanda lo screening annuale a partire dai 45 anni, e la Prevention Task Force governativa, che invece prescrive la mammografia biennale tra i 50 e i 75 anni, ritenendo che prima di tale fascia di età ogni donna dovrebbe soppesare individualmente rischi e benefici della scelta.

Ciò che accade negli Stati Uniti è abbastanza significativo di quanto sta avvenendo anche nel resto del mondo: in generale gli oncologi sono più favorevoli allo screening, perché vedono i singoli casi salvati dall'esame, mentre gli epidemiologi e gli esperti di politica sanitaria, che guardano a grandi numeri con una visione d'insieme e con maggiore distacco, si accorgono dei potenziali effetti negativi di questa pratica e tendono a essere più restrittivi. Le decisioni collettive, che coinvolgono la gestione della salute di un intero Paese, dovrebbero essere prese in base a un insieme di considerazioni in cui i dati e le evidenze scientifiche dovrebbero avere un peso importante, anche perché gli screening costano molto e il denaro disponibile deve essere ripartito fra le iniziative più d’impatto per la salute pubblica.

Decisioni ponderate

Qual è dunque l'indicazione più sensata per chi deve decidere se sottoporsi a una mammografia al di fuori degli screening? La maggior parte delle istituzioni serie che si occupano di screening mette a disposizione una gran quantità di materiali informativi per le donne poiché, in una situazione in cui vi sono innegabili pro e qualche contro (situazione peraltro molto comune in medicina), la decisione su cosa fare non può che basarsi su considerazioni personali quali il proprio approccio alla medicina, ai test e alla salute, la capacità di gestire eventuali diagnosi ambigue e una previsione di ciò che si vorrebbe fare in caso di diagnosi di carcinoma duttale in situ.

Al momento la maggior parte degli esperti sostiene che vi sono sufficienti prove di efficacia dello screening con cadenza biennale nella fascia di età che va dai 50 ai 69, e probabilmente ai 75 anni. Questa è anche la posizione della maggior parte delle istituzioni europee, anche se Svezia e Gran Bretagna stanno pensando di rivedere il sistema dello screening, possibilmente per passare a un sistema di diagnosi precoce su base individuale, dietro prescrizione del medico. Questa strategia, che potrebbe anche essere sensata, si scontra però con le abitudini delle persone nelle diverse nazioni e con la consapevolezza (ancora molto bassa in certe regioni d'Italia) che bisogna prendersi cura di sé con regolari visite mediche anche qualora la ASL non mandi a casa la lettera di richiamo, come accade invece oggi con gli screening.

Gli studi sugli effetti negativi dell'irraggiamento da mammografia invitano anche a stare attenti a dove si fa l'esame: centri specializzati, che utilizzano macchinari recenti (e quindi con dosi di radiazioni più basse) e che hanno medici in grado di leggere un gran numero di mammografie l'anno (un requisito fondamentale per ridurre il numero di errori diagnostici, indipendentemente dall’inevitabile sovra-diagnosi) offrono le migliori garanzie di sicurezza e serietà.

Il consiglio è quindi di sottoporsi allo screening mammografico secondo le norme italiane (che verranno modificate solo se, nei prossimi anni, dovessero uscire studi in grado di cambiare il profilo di rischio-beneficio) ma stando attente a scegliere il centro diagnostico con maggiore competenza, perché non sono tutti uguali.

Nella figura lo schema decisionale preparato per le donne dal Centro programma screening del Canton Ticino (Svizzera). Rappresenta il destino di 1.000 donne che si sottopongono o che non si sottopongono allo screening mammografico biennale tra i 50 e i 60 anni. Per maggior completezza di informazione, lo stesso Centro svizzero stima che tra le 24 donne con diagnosi di tumore al seno, 4 siano sovradiagnosi (cioè tumori che non avrebbero avuto bisogno di cure o interventi). In tal modo la capacità "diagnostica" della mammografia viene ridimensionata, ma la tempestività della diagnosi spiega quella vita salvata in più nel gruppo screening.

diagramma mammografia
  • Agenzia Zoe